Antonio Canova
SCULTORI
La statua di Venere ripresa nell’atto di uscire dal bagno è tra le opere più note dello scultore, massimo esponente del Neoclassicismo in Italia.
La figura femminile in piedi è raffigurata nell’atto di asciugarsi e coprire, secondo la tradizionale immagine della Venere pudica, la propria nudità; come nel marmo della Venere Callipigia di Napoli, la torsione del capo dietro le spalle dà dinamismo alla posa e dona all’insieme grande naturalezza.
Canova aveva rappresentato la dea della bellezza in precedenti occasioni, sia in scultura (come nel gruppo Venere e Adone) sia in pittura (vedi la Venere con lo specchio e Venere con un fauno degli ultimi decenni del Settecento).
La prima commissione per questo soggetto giunse a Canova nel 1802 da Ludovico I re d’Etruria per compensare l’assenza della Venere de’ Medici dalla Tribuna degli Uffizi: la celeberrima statua ellenistica, ammirata da Napoleone, fu infatti requisita e venne trasferita nel Musée Napoleon di Parigi.
A partire da un modello eseguito nello studio romano nel 1804, Canova realizzò tre versioni in marmo della Venere: preferendo “l’invenzione” alla pura copia dall’antico, lo scultore reinterpretò il soggetto trasformando, secondo le parole del Foscolo, “una bellissima dea” in una “bellissima donna”. La versione destinata a riparare il torto subito dal Granducato di Toscana, denominata “Italica”, resterà a Firenze anche dopo la ricollocazione, nel 1815, della Venere medicea; il suo rientro fu garantito dall’impegno dello stesso artista incaricato, come emissario dello stato pontificio, di trattare la difficile restituzione del patrimonio artistico sottratto da Napoleone.
La Venere presente nella sala del Museo Luigi Bailo è un gesso ottocentesco tratto dalla quarta versione in marmo del soggetto, oggi conservata presso la City Art Gallery di Leeds, che Canova realizza tra il 1817 e il 1820 per Thomas Hope, noto banchiere e collezionista di passaggio a Roma. Tenendo conto delle osservazioni ricevute nelle precedenti versioni (riguardanti, in particolare, l’ampio drappo che copriva quasi interamente la parte frontale), lo scultore semplificò l’insieme eliminando il cofanetto ai piedi e restituendo alla figura la quasi integrale nudità secondo il modello antico.
L’opera entra a far parte delle collezioni dei musei trevigiani nel 1954, grazie all’importante lascito dell’avvocato e collezionista Bruno Lattes, già proprietario dell’omonima villa di Istrana.
