MUSEO LUIGI BAILO
PIANO TERRA
INGRESSO DEL MUSEO
Arturo Martini
Nato a Treviso nel 1889, dove vivrà fino al 1920, Arturo Martini lascia un segno indelebile nella storia della scultura del Novecento. Presso il Museo Luigi Bailo, dove gli è stata dedicata un’approfondita mostra nel 2023, la sua opera è ampiamente rappresentata grazie a importanti acquisizioni e donazioni che hanno arricchito nel tempo la raccolta martiniana nella sua città natale.
Allievo in ambito cittadino dello scultore Antonio Carlini, che gli insegna le tecniche della modellazione, il giovane Martini esordisce all’inizio del Novecento alle prime Mostre d’Arte Trevigiana e alle collettive della Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia.
Un lungo soggiorno presso Monaco di Baviera nel 1909 lo stimola ad elaborare, sotto l’influsso dello Jugendstil (il movimento artistico modernista proprio dei paesi germanici), originali modelli in gesso (come il vaso Fiaba) che realizza per la fornace Gregorj.
Respira il vivace clima artistico veneziano ed espone in più occasioni a Ca’ Pesaro, sperimentando tecniche grafiche (tra cui le cheramografie), oltre che scultoree; stringe amicizia con Gino Rossi, con cui viaggia a Parigi e condivide l’idea di rinnovare i linguaggi artistici. Fanciulla piena d’amore e Ritratto di Omero Soppelsa (di cui il Museo conserva i gessi), esposti tra le polemiche alla collettiva del 1913, sono testimonianza della ricerca allora in corso, che si avvicina a soluzioni futuriste.
Nel 1918 pubblica a Faenza il libro xilografico, misterioso e privo di parole, Contemplazioni, che tuttora suscita interrogativi tra gli studiosi. Recupera la forma negli anni del “ritorno all’ordine” con figure dai volumi semplificati, quasi geometrici, assorte in atmosfere metafisiche.
Trasferitosi a Vado Ligure, entra nell’entourage della corrente artistica “Valori Plastici” e, a Milano, frequenta il salotto culturale di Margherita Sarfatti e il gruppo di Novecento.
Nella seconda metà degli anni Venti, la meditazione sui modelli antichi, romani ed etruschi, studiati nei frequenti soggiorni nella capitale, giunge a una svolta: con il nudo della Pisana (di cui è qui presente il bronzo), l’artista raggiunge una sintesi formale tra arcaico e moderno.
La possibilità di utilizzare il forno dell’ILVA di Vado Ligure gli consente di realizzare la straordinaria serie di grandi terracotte a esemplare unico (come La Venere dei porti), che espone alla Quadriennale di Roma del 1931 vincendo il primo premio per la scultura.
Negli anni Trenta le terrecotte dell’artista ottengono le lodi della critica, cui si associano importanti commissioni pubbliche per opere monumentali, come il rilievo La Giustizia corporativa per il Palazzo di Giustizia di Milano.
È chiamato a ricoprire la cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, di cui diventerà direttore nel ‘44. Attraversa in questi anni una fase di profonda riflessione: discute per mesi con l’amico Gino Scarpa sui limiti della scultura figurativa e sullo sviluppo della forma plastica in rapporto allo spazio (questioni riassunte in Scultura lingua morta del ‘45 e nei Colloqui, che usciranno postumi), arrivando a capovolgere il rapporto tra pieni e vuoti nella celebre Atmosfera di una testa. Espulso dall’Accademia nel dopoguerra, si trasferisce nel bergamasco; nel ‘46, un anno prima dell’improvvisa scomparsa, realizza il Palinuro in marmo di Carrara, primo monumento dedicato alla Resistenza partigiana, collocato presso il Palazzo universitario Bo di Padova.